domenica 30 agosto 2015

IL RINNOVAMENTO SECONDO ROBERTA DE MONTICELLI

Mi sarebbe piaciuto che Roberta de Monticelli avesse potuto parlare, presso il nostro istituto, di uno dei suoi ultimi libri o, comunque, della sua visione della realtà.
Per la verità l’avevo invitata e, in un primo momento, mi aveva anche dato la disponibilità a venire da noi lo scorso marzo, sennonchè sopraggiunti impegni le hanno impedito di mantenere la promessa.
Peccato perché, nel panorama della filosofia italiana, la De Monticelli si distingue, a mio parere, per due motivi fondamentali: il primo è che propone un approccio filosofico di impronta fenomenologica di grande attualità che si differenzia da quello rappresentato dall’establishment  filosofico, che ha dominato in Italia da almeno un trentennio ed è tuttora molto influente, all’insegna del pensiero post-moderno, del relativismo culturale ed etico; il secondo motivo è che, come ho avuto occasione di constatare assistendo a vari suoi interventi pubblici (in particolare al festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo), ha una carica umana, una capacità dialettica e di coinvolgimento notevoli che fanno percepire la filosofia non come pure esercizio intellettualistico, ma come strumento utile a leggere e interpretare la realtà e la vita quotidiana in modo intelligente e piacevole.
Sulla scia di E. Husserl  (filosofo, purtroppo, messo in ombra dall’influenza che via via ha esercitato il suo discepolo prediletto M. Heidegger), punta il dito contro il ragionare sofistico oggigiorno incarnato dai  vari filosofi postmoderni (uno dei bersagli è G. Vattimo, che ha scritto fra l'altro Addio alla verità), per i quali, come sosteneva Nietzsche, non vi sono fatti ma solo interpretazioni: il che significa che non esiste (e neppure ha senso ricercare) la “verità”, la quale sarebbe sarebbe solo opinione che varierebbe non solo da cultura a cultura, ma anche da soggetto a soggetto, da circostanza a circostanza. Non vi è quindi un criterio o un insieme di criteri in base ai quali potere appurare come stanno le cose. La De Monticelli non pensa naturalmente  ad una verità soprannaturale (“Verità”) quanto ad una corretta visione della realtà, dei fatti e dei comportamenti. 
Il suo affondo va oltre il post-moderno, colpisce in particolare M. Heidegger che, rinnegando la logica quale strumento di un argomentare razionalmente fondato (per chi volesse approfondire questo aspetto, rinvio al testo della De Monticelli, Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, Ed. Bollati Boringhieri), e, prescindendo da una concezione etica della vita (non vi è nel suo pensiero, una elaborazione di questo tipo; inoltre la sua adesione al nazismo mai rinnegata, il suo silenzio totale sulla Shoah e i suoi comportamenti personali risultano sconcertanti), ha contribuito in modo rilevante alla débâcle del pensiero contemporaneo, arenatosi nelle secche del relativismo radicale sia sul piano conoscitivo che su quello etico.
La De Monticelli propone un’attenzione verso le cose, per come esse ci appaiono nella nostra esperienza. I limiti dell’arbitrio soggettivo stanno infatti nelle cose stesse, che emergono con una loro struttura, una loro organizzazione intrinseca, una loro normatività che va colta e rispettata.
Così i valori (e i disvalori) esistono nelle cose, nelle persone, nei fatti; non sono principi astratti, ma vivono nella realtà: ad esempio, in un bel panorama (o viceversa in un paesaggio deturpato), in una buona azione (o viceversa in un comportamento riprovevole).
Di fronte alla decadenza civile, etica, al prevalere del “particulare” (vi sono pagine veramente incisive sul degrado nel nostro paese a livello politico, etico e civile, vivacemente descritti in tre libretti molto belli: La questione morale, La questione civile, Sull’idea del rinnovamento), si deve avere la forza di reagire, di mirare al rinnovamento.

L’uso corretto del linguaggio, l’argomentare logico volto alla ricostruzione della verità e la sensibilità verso i  valori costituiscono componenti essenziali per la realizzazione del rinnovamento auspicato. Diventa altresì indispensabile una costante tendenza a realizzare una vita pensata, dandosi una ragione di ciò a cui si pensa e per cui si agisce, riuscendo a sospendere e a rivedere i pregiudizi, gli schematismi assorbiti automaticamente dalla tradizione o dal contesto sociale.
LA VIA LUNGA DELL'ERMENEUTICA SECONDO PAUL RICOEUR

Un'altra risposta, interessante a mio parere, in merito agli interrogativi che, nei post precedenti, ho sollevato sul pensiero di M. Heidegger, si trova in un autore che amo molto, Paul Ricoeur.
secondo questo studioso, non si può fare filosofia in contrapposizione o anche solo ignorando le scienze: esse infatti consentono di arricchire la conoscenza, la spiegazione della realtà; tale spiegazione risulta una base utile alla filosofia per una migliore comprensione dei grandi perché della vita, che assume come oggetti della sua ricerca.
Post in elaborazione.
L’ambiguità di Martin Heidegger

Nella parte terminale del post inerente ai Quaderni neri di M. Heidegger, ponevo una domanda: come è possibile che l’autore di Essere e tempo, uno dei filosofi più influenti del pensiero contemporaneo, abbia potuto non solo aderire al nazismo, ma chiudersi in un profondo silenzio, anche una volta terminata la guerra, in merito allo sterminio degli ebrei?
Una possibile risposta credo si possa trovare in un bel saggio di Adriano Fabris, studioso non pregiudizialmente avverso al pensiero di Heidegger, presente nel volume da lui curato Metafisica e antisemitismo. I “Quaderni neri” di Heidegger ta filosofia e politica, Ed. ETS, 2014.
Il tema su cui Fabris si sofferma è quello della “decisione”, che è presente già in un corso universitario tenuto da Heidegger nel 1921–1922. Ciascun individuo si trova di fronte ad un’alternativa: lasciarsi disperdere nelle attività della vita quotidiana o, viceversa, contrapporsi a tale dispersione, mirando a scoprire se stesso e mantenendosi fedele a ciò che si è. Optando per la seconda via e quindi realizzando la propria individualità autentica, si contrasta la tendenza naturale al decadimento. La decisione non ha un risvolto puramente teorico ma anche pratico, non è un mero esercizio intellettuale ma incide sulla vita personale.
Il tema viene ripreso in Essere e tempo, dove la decisione fondamentale è per ciò che è indecidibile, ossia per l’essere-per-la-morte, per il riconoscimento della finitezza dell’esserci (= dell’uomo), di ciò che questi propriamente è. La decisione diventa volontà di essere fedele a se stesso. Riprendendo quanto già sostenuto nel corso del 1921–1922, Heidegger ritiene che vi siano due modalità possibili di esistenza: una inautentica, che consiste nella dispersione della vita quotidiana, nella chiacchiera e una autentica, che richiede una fedeltà a se stessi. La scelta dell’esistenza autentica coincide con l’accoglienza del destino di mortalità che è proprio di un individuo.
Se si pensa bene a quanto ho finora riferito, si ricava l’idea che, per Heidegger, il soggetto è centrato su se stesso, mentre il rapporto con l’altro passa in secondo piano, anzi l’altro si identifica con la massa, che vive una quotidianità priva di valore; l’autenticità ha poi una connotazione eroica ed elitaria. Inoltre la decisione non è connessa a principi, a criteri che diano un senso all’azione, ma scaturisce unicamente dall’io, chiuso in se stesso, volto all’autoaffermazione. Non è quindi espressione di una libertà responsabile, ma di una volontà arbitraria.
Ciò che Heidegger propone per il singolo individuo, ossia la decisione ad essere autenticamente se stesso, negli 1933–1934 - periodo in cui aderisce al nazismo e ricopre la carica di rettore dell’Università dei Friburgo -, lo trasferisce al popolo, in particolare al popolo tedesco, il quale deve essere consapevole della propria essenza e perseguirla con coerenza e costanza. Mentre sul piano individuale vi è una chiamata della coscienza che richiede un atto volontario di adesione da parte del soggetto, sul piano del popolo è Heidegger stesso che si presenta come “guida della guida” del popolo tedesco, ossia di Hitler.
Il popolo tedesco deve evitare di lasciarsi trascinare nella rovina a cui è destinato l’Occidente, decidendosi a contrastare i nemici che sono rappresentati dai sostenitori di una mentalità tecnico-scientifica. Da qui il primato e la missione spirituale del popolo tedesco, chiamato ad essere se stesso e quindi ad essere–per-la–morte.
Mentre la scelta individuale è legata al singolo soggetto, esponendosi al rischio dell’arbitrarietà, la scelta del popolo finisce col coincidere con la volontà di un “capo-popolo”. Se si pensa a quanto è avvenuto negli anni successivi con lo scatenamento della guerra mondiale e con la Shoah ad opera del nazismo, il pensiero di Heidegger si carica di tinte fosche, tragiche.
Adriano Fabris, sul finire del saggio, accenna alla presenza in Heidegger di strade alternative, sia pure formulate in modo ambiguo, dove il rapporto con l’altro assume una considerazione centrale e dove al popolo si sostituisce la comunità.
Resta comunque centrale, nell’interpretazione di Fabris, la constatazione di un’ambiguità di fondo di Heidegger, oltre che sul piano personale (si pensi al suo atteggiamento poco riconoscente verso il maestro Husserl e alle crude testimonianze riportate da un suo caro amico, K. Löwith, in un bel libro autobiografico, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933), anche su quello teorico che discende da un’inadeguata elaborazione etica del suo pensiero; il che, per un filosofo che considera centrale il nesso tra pensiero e azione, tra filosofia ed etica/politica, non è di secondaria importanza e proietta un cono d’ombra oscura su tutta la sua opera.


venerdì 28 agosto 2015

I “QUADERNI NERI” DI MARTIN HEIDEGGER

(a proposito del libro di Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I "Quaderni neri", Bollati Boringhieri, 2015)

Nel mese di maggio, al Salone internazionale del libro di Torino, ho avuto occasione di ascoltare Donatella Di Cesare che ha parlato del filosofo Martin Heidegger, del quale sono stati pubblicati in Germania lo scorso anno i Quaderni neri, che dovrebbero in autunno uscire anche nella traduzione italiana. Mi ha colpito il fatto che fosse scortata da due guardie del corpo che facevano barriera tra lei e il pubblico. Nel mese di luglio avrebbe dovuto parlare anche presso il castello di Iseo, appuntamento al quale mi sono presentato, ma, con rammarico, ho scoperto che la relatrice aveva dato forfait per motivi di sicurezza. Ricercando in Internet le ragioni di tali misure, sono venuto a sapere che le sue prese di posizione, avvenute fra l’altro tramite vari interventi pubblicati sull’inserto “La lettura” del Corriere della sera domenicale e, soprattutto, attraverso il libro scritto per la Bollati Boringhieri, intitolato Heidegger e gli ebrei. I "Quaderni neri”, è stata presa di mira da esponenti di estrema destra e sottoposta a minacce. Va ricordato, inoltre, che D. Di Cesare, che insegna Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, è stata allieva di H. G. Gadamer, allievo a sua volta di M. Heidegger; si occupa di filosofia ebraica, su cui ha scritto vari volumi; recentemente, esattamente all’inizio di quest’anno, si è dimessa da vicepresidente della “Martin Heidegger-Gesellschaft“, istituzione che si occupa della valorizzazione del pensiero di Heidegger, in seguito alle posizioni di chiusura assunte dal suo comitato direttivo dopo la pubblicazione dei Quaderni Neri e le polemiche che sono scaturite.

D. Di Cesare, come spiega nel suo libro dedicato ai Quaderni neri, rifiuta sia la posizione di chi liquida Heidegger in quanto considera il suo pensiero (sia quello espresso in Essere e tempo sia quello successivo alla cosiddetta “svolta”) intrinsecamente reazionario (come Adorno e, più recentemente, Farìas e Faye), sia quella di chi vorrebbe addomesticarlo, considerando la sua adesione al nazismo e scritti come i “Quaderni Neri” rispettivamente come una parentesi e un’opera marginale, che non inciderebbero sulla sostanza del suo pensiero.

Né accetta l’interpretazione di H. Arendt che lo considera incompetente da un punto di vista politico e, di conseguenza, separa la sua adesione al nazismo dalla sua opera filosofica. Viceversa i Quaderni neri evidenziano come la posizione politica di H., che, pur avendo un suo sviluppo interno (dall’illusione di poter divenire la guida spirituale del nazismo è passato ad un certo distacco dalla linea tecnicistica assunta via via dal nazionalsocialismo; non si tratta, comunque, di un vero e radicale strappo, se ancora nel 1941 elogia il discorso di Hitler del 22 giugno 1941 col quale annuncia l’attacco all’Urss, un documento che “i tempi a venire avrebbero potuto degnamente valutare”), non lo porterà a rinnegare mai fino al termine della guerra la sua adesione al partito nazista e non pronuncerà mai - neanche dopo l’ampia documentazione e le testimonianze dirette delle vittime (si pensi, anche solo, al Diario di Anna Frank o ai libri di Primo Levi, o, ancor di più, al processo ad Eichmann), una condanna dei crimini commessi dal nazismo, nonostante i pressanti inviti del poeta Celan e di filosofi amici prestigiosi (ad esempio, Jaspers e Marcuse).

La Di Cesare mette in rilievo, attraverso varie citazioni, tratte in particolare dai Quaderni Neri inquadrate nel relativo contesto, come il pensiero di Heidegger risulti inestricabilmente collegato alla dimensione politica; è Heidegger stesso che rileva che il punto di partenza della filosofia è l’esperienza effettiva della vita (pag. 8). Con la cosiddetta “svolta”, H. sposta l’attenzione dall’uomo (“esserci”), colto nella sua esistenza storica, alla storia dell’Essere. Nella sua visione risulta che, nell’età della metafisica - che va dall’origine del pensiero greco (dopo Parmenide) fino ai suoi tempi-, non solo ci si è dimenticati dell’Essere, ma lo si è anche abbandonato e l’Essere stesso si è sottratto all’uomo. Questo oblio e ritrarsi dell’Essere ha avuto come fase culminante l’età moderna, coincidente con la nascita della scienza, lo sviluppo della tecnica, l’industrializzazione, che si fondano sul pensiero calcolante e che hanno dato vita ad un processo che viene denominato “macchinazione”. Artefici principali della “macchinazione”, il cui esito finale è una desertificazione dove non cresce più nulla, risultano essere il mondo anglo-americano e il bolscevismo, che sono strettamente legati all’ebraismo (pag. 203). In H. tutta la modernità, compresa la democrazia, viene considerata negativamente.

L’antisemitismo di H. non si basa, come nel caso della concezione ufficiale del nazismo, su un razzismo di matrice biologica, ma ha una connotazione metafisica (pag. 101): gli ebrei occupano un ruolo importante, decisivo nell’affermazione della “macchinazione” e quindi nell’allontanamento dell’uomo dall’Essere (pag. 207 e segg).

H. assegna ai tedeschi la missione di contrastare tale “macchinazione e vede nella seconda guerra mondiale una guerra dell’Essere contro il predominio, attribuito in particolare agli ebrei, dell’ente (umanità) a scapito dell’Essere; l’ebraismo infatti è penetrato ovunque, anche se in modo impercettibile, e non ha bisogno di intraprendere azioni belliche “mentre a noi – scrive H. nel 1941 – non resta che sacrificare il miglior sangue dei migliori del nostro popolo” (pag. 194).

Terminata la guerra, H. intensifica le sue riflessioni sulla tecnica, considerata una minaccia per l’uomo e per la natura. In una conferenza del 1949, tenuta a Brema, intitolata Il dispositivo, considera l’industria alimentare meccanizzata, ossia l’agricoltura moderna, alla stessa stregua della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas (pag. 236). Nell’ambito della storia dell’Essere le differenze che esistono nella realtà non hanno importanza: lo sterminio è un avvenimento come un altro e le grida disperate delle vittime dello sterminio non vengono neppure ascoltate.

In questa ottica, la Shoah si configura come la conseguenza del “dispositivo”, ossia della tecnica (pag. 246), ma, in questo contesto, dove vanno a finire le responsabilità? Come è possibile che un intellettuale del suo calibro, che ha esercitato (e continua ad esercitare) un’influenza rilevante nella filosofia contemporanea, perlomeno in quella denominata “continentale”, sia giunto a simili concezioni? D. Di Cesare, nonostante le analisi e le interpretazioni fortemente critiche, considera Heidegger un grande pensatore. Prossimamente, al festival della filosofia di Modena, terrà una lezione su Essere e tempo. Sono curioso di ascoltarla e capire come mai, nonostante tutto, valga la pena di leggere Heidegger.



domenica 1 marzo 2015

Riflessioni su M. Heidegger, a partire da un romanzo

I “Quaderni neri” di M. Heidegger, pubblicati in Germania lo scorso anno, hanno riacceso il dibattito su questo filosofo, tra i maggiori del ‘900 (anzi, secondo molti studiosi, il maggiore) ma anche tra i più dibattuti, a causa della sua adesione al nazionalsocialismo e al suo totale silenzio sulla Shoah, anche terminata la guerra. Poiché si tratta di un autore che tuttora esercita un’influenza rilevante - anche e non solo - nell’attuale panorama della filosofia italiana (basti pensare alle posizioni di E. Severino, U. Galimberti, G. Vattimo….), credo valga la pena di parlarne.

Ho pensato di iniziare a farlo presentando un romanzo piacevole a lui dedicato, il cui titolo è “L’ombra di Heidegger”, pubblicato dall’editore Neri Pozza, di cui è autore J. P. Feinmann, scrittore argentino oltre che insegnante di filosofia.
Protagonista del romanzo è un docente universitario di filosofia, Dieter Müller, che è stato ammaliato dal genio di Heidegger, già prima e ancor più dopo la comparsa di Essere e tempo, capolavoro del filosofo, libro che gli cambia e segna profondamente la vita; segue le sue lezioni prima a Marburgo e poi a Friburgo, contribuisce alla diffusione del suo pensiero, condividendolo con profonda convinzione.
Müller, al termine della seconda guerra mondiale, scrive una lunga lettera al figlio - che ha chiamato Martin come il filosofo-maestro -, in cui racconta la sua vicenda intellettuale e personale (fra l’altro, descrive il suo incontro a Berlino, avvenuto nel 1932, con una ragazza comunista che partecipa ad uno scontro contro i nazisti, che egli salva da un violento pestaggio e che diverrà la madre di suo figlio; parla poi di un incontro in una soffitta con Hanna Arendt, la filosofa allieva di Heidegger, del quale era divenuta amante e col quale manterrà un rapporto sentimentale fino al termine della sua vita, nonostante i distacchi e la diversità delle idee politiche) sullo sfondo dell’avvento al potere del nazionalsocialismo e della nomina a Rettore dell’università di Friburgo di M. Heidegger, nel 1933. È il periodo della luna di miele del filosofo con il nazionalsocialismo, di cui aspira a divenire il Führer ideologico, a fianco del Führer politico. Al discorso d’insediamento, che verte prevalentemente su un proposta di radicale ristrutturazione dell’Università, assiste anche Müller, in compagnia della giovane precedentemente conosciuta,  e ne esce entusiasta, decidendo di iscriversi al partito nazista; la sua adesione si rinforza dopo l’Appello agli studenti di Heidegger, nell’ambito del quale il riferimento al nazionalsocialismo è esplicito. Le lotte interne al movimento, che vedono da una parte coloro – in particolare le SA, squadre di assalto - che auspicano una radicalizzazione del movimento e fra i quali l’autore del romanzo colloca anche Heidegger, e dall’altra coloro, a favore dei quali si schiera Hitler, che preferiscono una stabilizzazione del potere perseguendo l’appoggio dell’esercito e del padronato capitalistico, sfociano nella cruenta notte dei lunghi coltelli, durante la quale le SA vengono in gran parte sterminate. Heidegger viene risparmiato e, pur dimettendosi dalla carica di Rettore e differenziandosi dalla linea ideologica vincente, dà una svolta al suo pensiero intrecciandolo al nazionalsocialismo, individuando in esso la forza capace di contrapporsi alla tenaglia dei nemici rappresentati dal capitalismo mercantilistico ebraico-americano e dal bolscevismo collettivista e di raddrizzare il destino della civiltà occidentale liberando gli enti (uomini e cose) dal dominio della Tecnica.
Heidegger, anche se vive appartato e in condizioni di sorvegliato dalla Gestapo per le sue idee difformi rispetto alla linea dominante di Rosenberg e Göring, non solo non rinnega la sua fiducia nel nazionalsocialismo, ma continuerà a versare la quota di iscrizione al partito fino al 1945; emerge poi nel romanzo un atteggiamento di sostanziale allineamento con le posizioni naziste assunte nei confronti degli ebrei, nonostante il suo rapporto sentimentale con la Arendt e con altre allieve ebree; fra l’altro si presenta a Roma, nel 1936, ad un incontro con K. Löwith, filosofo ebreo suo amico, con  il distintivo con la croce uncinata  all’occhiello della giacca.
La svolta che il nazionalsocialismo subisce dopo la notte dei lunghi coltelli e l’antisemitismo, che dal piano teorico si trasforma in azioni di soppressione delle persone, provocano invece in Müller una reazione diversa: approfittando dell’opportunità offertagli dalle autorità universitarie di recarsi a Parigi, nel periodo successivo all’occupazione militare da parte tedesca, per tenere un ciclo di conferenze sulla filosofia tedesca, fugge in Argentina.
Terminata la guerra, Müller si trova davanti alla fotografia di un ebreo nudo che va verso le docce di un campo di sterminio; si rende conto dell’atrocità e dell’assurdità di un regime che ha ridotto milioni di persone a ossa e immondizia, che ha calpestato la loro soggettività, la loro identità personale prima di annientarle fisicamente. Non regge al senso di colpa e, riconoscendo di non avere “voluto sapere” quel che stava avvenendo in Germania e considerandosi complice dei delitti compiuti dal nazionalsocialismo, si uccide.
Il figlio, Martin, che ha seguito le orme del padre dedicandosi alla filosofia e approfondendo il pensiero di Heidegger, decide di andare a trovare il grande filosofo, il “maestro”, nella sua casa nella Foresta Nera, perché vuole avere con lui un dialogo. Non gli pone, però, domande sull’Essere e sull’oblio a cui è stato sottoposto in modo accentuato dal tecno-capitalismo che si è gettato nella conquista e nella manipolazione delle cose e degli uomini; gli mostra, invece, la fotografia dell’uomo nudo che corre verso la camera a gas, davanti alla quale suo padre aveva compreso la mostruosità di quanto la Germania aveva compiuto e di cui si era sentito complice, e gli chiede che cosa pensa di fare, aspettandosi da lui il riconoscimento di un pentimento analogo a quello del padre. Heidegger, però, non solo non risponde, ma non lo guarda nemmeno in faccia, anzi segue con evidente fastidio le sue parole; ad un certo punto, senza dire nulla, si allontana dalla stanza, lasciandolo solo.

Il romanzo tratteggia, in modo sintetico ma efficace, il periodo storico dell’avvento e dello sviluppo del nazionalsocialismo, all’interno del quale viene collocata la figura di Heidegger, che emerge nella sua profonda ambiguità, come una specie di Giano bifronte: da un lato, gigante del pensiero tedesco (e non solo) e, dall’altro, filosofo scomodo per le sue posizioni sconcertanti a livello politico ed etico.
Questo giudizio è condiviso da F. Volpi, uno dei maggiori studiosi italiani di  Heidegger, che ha scritto, insieme ad A. Gnoli, una postfazione al romanzo di Feinmann, dove, nel rilevare “l’ostinato e ingombrante silenzio del maestro teutonico dopo la guerra”, riconosce a Feinmann di avere, con una finzione letteraria, messo a fuoco il problema della “compromissione di Heidegger con il nazionalsocialismo, e più in generale il rapporto della sua filosofia con l’etica e la politica”.
A differenza di altre precedenti prese di posizione a favore di Heidegger,  F. Volpi riconosce in questo scritto la “torbida e pericolosa ambiguità del pensiero di Heidegger”, divenuto via via, dopo la famosa svolta successiva a Essere e tempo, “lo sciamano di un’intera generazione…. pifferaio magico della filosofia teutonica”.

È un libro, in sintesi, che spinge a riflettere su un pensatore che ha inciso profondamente su gran parte della filosofia contemporanea (quella cosiddetta “continentale”), ma le cui scelte politiche e atteggiamenti etici proiettano un’ombra inquietante che rischia di allungarsi anche sul suo pensiero.

Mario Martini