lunedì 31 agosto 2015

L'APPROCCIO FENOMENOLOGICO NEL CAMPO EDUCATIVO-DIDATTICO
A proposito del volume di Vincenzo Costa, Fenomenologia dell'educazione e della formazione, La Scuola Editrice 2015

Post in elaborazione 
LA TECNOLOGIA E' DESTINATA A PEGIORARE LA VITA DELL'UOMO?
Le riflessioni di M. Ferraris in Mobilitazione totale, Laterza 2015

In elaborazione.
LA SCOPERTA DEI NEURONI SPECCHIO

La scoperta dei neuroni specchio, da parte di Giacomo Rizzolatti e dei suoi collaboratori dell'Università di Parma, costituisce un risultato affascinante, che a mio parere può avere delle interessanti ricadute anche sul piano educativo-didattico.
Post in elaborazione.
LA SCIENZA SECONDO CARLO ROVELLI

Un altro studioso, in questo caso appartenente al campo scientifico, che mi sarebbe piaciuto ospitare e far parlare nel nostro Istituto è Carlo Rovelli, il cui ultimo libro intitolato Sette brevi lezioni di fisica, ed. Adelphi 2014, è da diversi mesi in vetta alla classifica dei libri più venduti in Italia.
In uno scritto in parte autobiografico, dal titolo Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio Ed. Di Rienzo, racconta la sua esperienza di studente liceale a Verona nel periodo rovente a cavallo degli anni ‘60/’70, il suo desiderio di cambiamento del mondo e la scoperta della passione per la fisica teorica.
In esso descrive come, insieme ad un altro fisico Leo Smolin, è giunto a sostenere che lo spazio è costituito da loop (anelli). Si tratta di una teoria alternativa a quella delle stringhe, forse più famosa, ma , a suo parere, meno promettente rispetto alla prima.
Rovelli ricostruisce, in La realtà non è come ci appare, Cortina Ed., con un linguaggio chiaro e con un’esposizione accessibile anche a coloro che non hanno competenze specifiche nel campo della fisica, le principali scoperte scientifiche del ‘900, soffermandosi in particolare sulle teorie della relatività di Einstein e sulla teoria quantistica e sugli  sviluppi più recenti.
In forma più sintetica è ritornato sugli stessi argomenti nel libretto che ho citato all’inizio.
Pur non essendo io un esperto di fisica, sono libri che mi hanno entusiasmato e che consiglio vivamente di leggere.
Vorrei soffermarmi, infine, su alcune riflessioni relative alla scienza che C. Rovelli sviluppa in un altro suo bel libro (Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Ed. Mondadori Università).
Rovelli mette in guardia gli scienziati dal cadere nel tranello delle “Teorie del Tutto”, poiché sconfinano in un campo che esula dalla scienza, e dal ritenere che le teorie scientifiche abbiano un carattere definitivo, come avveniva nell’Ottocento quando si riteneva che Newton avesse scoperto le leggi fondamentali della natura. Ad inizio Novecento le nuove teorie di Einstein e di Heisenberg hanno gettato scompiglio e le teorie stesse di Einstein e di Heisenberg potrebberoin futuro essere falsificate.
Le riflessioni che, da allora, sono state elaborate sulla natura della scienza (si pensi alle opere di Popper, Bachelard, Lakatos, Kuhn, Feyerabend…) hanno all’origine tale scompiglio.
Nonostante il carattere non definitivo delle conoscenze scientifiche, queste ci permettono di avere un’immagine del mondo, una comprensione di come funziona il mondo. Per quanto questa immagine sia migliorabile, dobbiamo tenere presente che essa è la migliore che abbiamo.
Rovelli, inoltre, mette in guardia da un relativismo radicale che porti a concludere che tutte le opinioni sono equivalenti, così come da un pensiero dell’assoluto, che porti ad assumere che i nostri criteri etici, estetici e di verità siano i migliori.


A proposito di scienza, segnalo il numero 5/2015 di Micromega, Almanacco della scienza, che contiene vari saggi di diversi studiosi, tra cui il primo è di C. Rovelli, in cui sottolinea che la certezza pratica prodotta dal sapere scientifico è rilevante; si tratta di un sapere affidabile, benché non assoluto e costantemente migliorabile.
LA SCIENZA OGGI SECONDO EDOARDO BONCINELLI

Mi è capitato più volte di vedere e sentire parlare Edoardo Boncinelli al festival della scienza di Bergamo, del cui Comitato scientifico è presidente. È uno dei più famosi genetisti italiani e un divulgatore scientifico di alto livello, autore di vari volumi dedicati a tanti aspetti connessi alla scienza e alla tecnica.
Mi soffermo sull’ultimo da lui scritto, da poco comparso in libreria, dal titolo I sette ingredienti della scienza, Indiana editore, 2015, che si legge in poche ore, ma con profitto.
L’autore, che fa uso di un linguaggio e di un’esposizione facilmente comprensibili, riflette su che cosa è da intendere oggi per scienza, dopo avere rilevato l’eccentricità (o se vogliamo l’inadeguatezza) della cultura italiana nei confronti della scienza rispetto alla valorizzazione compiuta dai tanti paesi esteri in cui gli capita di andare. Tende infatti a prevalere, soprattutto negli intellettuali umanisti che hanno rilievo nel panorama culturale italiano, una diffidenza - se non un’aperta critica - nei confronti della scienza e della tecnica, non solo per gli effetti negativi che pure da esse sono derivati (e derivano), ma anche per i limiti conoscitivi che esse avrebbero.
Individuando sette ingredienti fondamentali (il carattere collettivo e non più individuale della ricerca scientifica attuale; il progresso delle conoscenze in vari campi scientifici; l’attenzione verso i fenomeni o gli aspetti riproducibili, che si possono analizzare attraverso non solo l’osservazione ma anche esperimenti appositamente prodisposti; la descrizione rigorosa dei fenomeni, l’esposizione non ambigua, non contradditoria dei risultati ottenuti e la loro comunicazione in spazi pubblici, in particolare tramite internet; la coerenza logica e il carattere fallibile delle teorie; la capacità di prevedere fenomeni; la costruzione di macchine - tra cui ad esempio l’acceleratore di particelle - e strumenti - dal canocchiale al computer), l’autore mette in evidenza come la scienza mira a elaborare teorie che pretendono di valere solo in campi circoscritti; pertanto, è connaturata ad essa la modestia; essa si pone domande solo relative a come si manifestano i fenomeni e non pretende, invece, di fornire risposte a “perché” (Perché c’è il mondo? Perché ci sono io? Perché so che devo morire?...).
Non è vero che, con la scoperta della relatività e con la teoria quantistica, le conoscenze della fisica classica siano state smentite; esse, anzi, continuano a valere per tantissimi oggetti, aspetti della nostra vita quotidiana; semplicemente, nei sistemi che implicano grandissime velocità e nella dimensione dell’infinitamente piccolo, le teorie della fisica classica non funzionano e, pertanto, servono altre teorie, le quali quindi vengono ad arricchire e a completare il patrimonio scientifico, più che a smentirlo.
Inoltre il riconoscimento del carattere fallibile (sottolineato in particolare da Popper) delle conoscenze scientifiche non implica che esse siano destituite di valore, ma che possano essere col tempo migliorate o sostituite da altre più efficaci. Anzi, vi è un nucleo fondamentale di conoscenze che sono certe (validate da sperimenti ripetuti nel tempo e attuati da più ricercatori) e stabili, mentre  vi è una parte che è in uno stato di ebollizione. Rispetto a chi svaluta il valore conoscitivo della scienza, Boncinelli sottolinea come le nostre conoscenze sul mondo fisico, sul nostro corpo, sul cervello siano considerevoli e destinate ad aumentare.
Inoltre, grazie al suo carattere sperimentale, le applicazioni, i risultati pratici hanno portato benessere materiale, hanno migliorato le condizioni di vita delle persone.

Infine, l’atteggiamento scientifico - che richiede senso critico, disponibilità ad essere criticato e a criticare - è prezioso ai fini del buon funzionamento della democrazia.
L'ESEMPIO DI UNA PERSONA CHE NON SI E' ARRESA
(Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita, Ed. Bompiani 20015)

Un esempio di italiano (per la verità, almeno in parte, di origine russa) che ha saputo ribellarsi al fascismo, rinunciando alla carriera universitaria e lottando all'interno di Giustizia e libertà, subendo prima il confino e poi il carcere dove morirà, è Leone Ginzburg, figura di spicco della cultura italiana (cofondatore e animatore della casa editrice Einaudi) della prima metà del '900. Ginzburg è il protagonista principale del romanzo di Antonio Scurati, uscito quest'anno.
Post in elaborazione.


domenica 30 agosto 2015

IL RINNOVAMENTO SECONDO ROBERTA DE MONTICELLI

Mi sarebbe piaciuto che Roberta de Monticelli avesse potuto parlare, presso il nostro istituto, di uno dei suoi ultimi libri o, comunque, della sua visione della realtà.
Per la verità l’avevo invitata e, in un primo momento, mi aveva anche dato la disponibilità a venire da noi lo scorso marzo, sennonchè sopraggiunti impegni le hanno impedito di mantenere la promessa.
Peccato perché, nel panorama della filosofia italiana, la De Monticelli si distingue, a mio parere, per due motivi fondamentali: il primo è che propone un approccio filosofico di impronta fenomenologica di grande attualità che si differenzia da quello rappresentato dall’establishment  filosofico, che ha dominato in Italia da almeno un trentennio ed è tuttora molto influente, all’insegna del pensiero post-moderno, del relativismo culturale ed etico; il secondo motivo è che, come ho avuto occasione di constatare assistendo a vari suoi interventi pubblici (in particolare al festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo), ha una carica umana, una capacità dialettica e di coinvolgimento notevoli che fanno percepire la filosofia non come pure esercizio intellettualistico, ma come strumento utile a leggere e interpretare la realtà e la vita quotidiana in modo intelligente e piacevole.
Sulla scia di E. Husserl  (filosofo, purtroppo, messo in ombra dall’influenza che via via ha esercitato il suo discepolo prediletto M. Heidegger), punta il dito contro il ragionare sofistico oggigiorno incarnato dai  vari filosofi postmoderni (uno dei bersagli è G. Vattimo, che ha scritto fra l'altro Addio alla verità), per i quali, come sosteneva Nietzsche, non vi sono fatti ma solo interpretazioni: il che significa che non esiste (e neppure ha senso ricercare) la “verità”, la quale sarebbe sarebbe solo opinione che varierebbe non solo da cultura a cultura, ma anche da soggetto a soggetto, da circostanza a circostanza. Non vi è quindi un criterio o un insieme di criteri in base ai quali potere appurare come stanno le cose. La De Monticelli non pensa naturalmente  ad una verità soprannaturale (“Verità”) quanto ad una corretta visione della realtà, dei fatti e dei comportamenti. 
Il suo affondo va oltre il post-moderno, colpisce in particolare M. Heidegger che, rinnegando la logica quale strumento di un argomentare razionalmente fondato (per chi volesse approfondire questo aspetto, rinvio al testo della De Monticelli, Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, Ed. Bollati Boringhieri), e, prescindendo da una concezione etica della vita (non vi è nel suo pensiero, una elaborazione di questo tipo; inoltre la sua adesione al nazismo mai rinnegata, il suo silenzio totale sulla Shoah e i suoi comportamenti personali risultano sconcertanti), ha contribuito in modo rilevante alla débâcle del pensiero contemporaneo, arenatosi nelle secche del relativismo radicale sia sul piano conoscitivo che su quello etico.
La De Monticelli propone un’attenzione verso le cose, per come esse ci appaiono nella nostra esperienza. I limiti dell’arbitrio soggettivo stanno infatti nelle cose stesse, che emergono con una loro struttura, una loro organizzazione intrinseca, una loro normatività che va colta e rispettata.
Così i valori (e i disvalori) esistono nelle cose, nelle persone, nei fatti; non sono principi astratti, ma vivono nella realtà: ad esempio, in un bel panorama (o viceversa in un paesaggio deturpato), in una buona azione (o viceversa in un comportamento riprovevole).
Di fronte alla decadenza civile, etica, al prevalere del “particulare” (vi sono pagine veramente incisive sul degrado nel nostro paese a livello politico, etico e civile, vivacemente descritti in tre libretti molto belli: La questione morale, La questione civile, Sull’idea del rinnovamento), si deve avere la forza di reagire, di mirare al rinnovamento.

L’uso corretto del linguaggio, l’argomentare logico volto alla ricostruzione della verità e la sensibilità verso i  valori costituiscono componenti essenziali per la realizzazione del rinnovamento auspicato. Diventa altresì indispensabile una costante tendenza a realizzare una vita pensata, dandosi una ragione di ciò a cui si pensa e per cui si agisce, riuscendo a sospendere e a rivedere i pregiudizi, gli schematismi assorbiti automaticamente dalla tradizione o dal contesto sociale.
LA VIA LUNGA DELL'ERMENEUTICA SECONDO PAUL RICOEUR

Un'altra risposta, interessante a mio parere, in merito agli interrogativi che, nei post precedenti, ho sollevato sul pensiero di M. Heidegger, si trova in un autore che amo molto, Paul Ricoeur.
secondo questo studioso, non si può fare filosofia in contrapposizione o anche solo ignorando le scienze: esse infatti consentono di arricchire la conoscenza, la spiegazione della realtà; tale spiegazione risulta una base utile alla filosofia per una migliore comprensione dei grandi perché della vita, che assume come oggetti della sua ricerca.
Post in elaborazione.
L’ambiguità di Martin Heidegger

Nella parte terminale del post inerente ai Quaderni neri di M. Heidegger, ponevo una domanda: come è possibile che l’autore di Essere e tempo, uno dei filosofi più influenti del pensiero contemporaneo, abbia potuto non solo aderire al nazismo, ma chiudersi in un profondo silenzio, anche una volta terminata la guerra, in merito allo sterminio degli ebrei?
Una possibile risposta credo si possa trovare in un bel saggio di Adriano Fabris, studioso non pregiudizialmente avverso al pensiero di Heidegger, presente nel volume da lui curato Metafisica e antisemitismo. I “Quaderni neri” di Heidegger ta filosofia e politica, Ed. ETS, 2014.
Il tema su cui Fabris si sofferma è quello della “decisione”, che è presente già in un corso universitario tenuto da Heidegger nel 1921–1922. Ciascun individuo si trova di fronte ad un’alternativa: lasciarsi disperdere nelle attività della vita quotidiana o, viceversa, contrapporsi a tale dispersione, mirando a scoprire se stesso e mantenendosi fedele a ciò che si è. Optando per la seconda via e quindi realizzando la propria individualità autentica, si contrasta la tendenza naturale al decadimento. La decisione non ha un risvolto puramente teorico ma anche pratico, non è un mero esercizio intellettuale ma incide sulla vita personale.
Il tema viene ripreso in Essere e tempo, dove la decisione fondamentale è per ciò che è indecidibile, ossia per l’essere-per-la-morte, per il riconoscimento della finitezza dell’esserci (= dell’uomo), di ciò che questi propriamente è. La decisione diventa volontà di essere fedele a se stesso. Riprendendo quanto già sostenuto nel corso del 1921–1922, Heidegger ritiene che vi siano due modalità possibili di esistenza: una inautentica, che consiste nella dispersione della vita quotidiana, nella chiacchiera e una autentica, che richiede una fedeltà a se stessi. La scelta dell’esistenza autentica coincide con l’accoglienza del destino di mortalità che è proprio di un individuo.
Se si pensa bene a quanto ho finora riferito, si ricava l’idea che, per Heidegger, il soggetto è centrato su se stesso, mentre il rapporto con l’altro passa in secondo piano, anzi l’altro si identifica con la massa, che vive una quotidianità priva di valore; l’autenticità ha poi una connotazione eroica ed elitaria. Inoltre la decisione non è connessa a principi, a criteri che diano un senso all’azione, ma scaturisce unicamente dall’io, chiuso in se stesso, volto all’autoaffermazione. Non è quindi espressione di una libertà responsabile, ma di una volontà arbitraria.
Ciò che Heidegger propone per il singolo individuo, ossia la decisione ad essere autenticamente se stesso, negli 1933–1934 - periodo in cui aderisce al nazismo e ricopre la carica di rettore dell’Università dei Friburgo -, lo trasferisce al popolo, in particolare al popolo tedesco, il quale deve essere consapevole della propria essenza e perseguirla con coerenza e costanza. Mentre sul piano individuale vi è una chiamata della coscienza che richiede un atto volontario di adesione da parte del soggetto, sul piano del popolo è Heidegger stesso che si presenta come “guida della guida” del popolo tedesco, ossia di Hitler.
Il popolo tedesco deve evitare di lasciarsi trascinare nella rovina a cui è destinato l’Occidente, decidendosi a contrastare i nemici che sono rappresentati dai sostenitori di una mentalità tecnico-scientifica. Da qui il primato e la missione spirituale del popolo tedesco, chiamato ad essere se stesso e quindi ad essere–per-la–morte.
Mentre la scelta individuale è legata al singolo soggetto, esponendosi al rischio dell’arbitrarietà, la scelta del popolo finisce col coincidere con la volontà di un “capo-popolo”. Se si pensa a quanto è avvenuto negli anni successivi con lo scatenamento della guerra mondiale e con la Shoah ad opera del nazismo, il pensiero di Heidegger si carica di tinte fosche, tragiche.
Adriano Fabris, sul finire del saggio, accenna alla presenza in Heidegger di strade alternative, sia pure formulate in modo ambiguo, dove il rapporto con l’altro assume una considerazione centrale e dove al popolo si sostituisce la comunità.
Resta comunque centrale, nell’interpretazione di Fabris, la constatazione di un’ambiguità di fondo di Heidegger, oltre che sul piano personale (si pensi al suo atteggiamento poco riconoscente verso il maestro Husserl e alle crude testimonianze riportate da un suo caro amico, K. Löwith, in un bel libro autobiografico, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933), anche su quello teorico che discende da un’inadeguata elaborazione etica del suo pensiero; il che, per un filosofo che considera centrale il nesso tra pensiero e azione, tra filosofia ed etica/politica, non è di secondaria importanza e proietta un cono d’ombra oscura su tutta la sua opera.


venerdì 28 agosto 2015

I “QUADERNI NERI” DI MARTIN HEIDEGGER

(a proposito del libro di Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I "Quaderni neri", Bollati Boringhieri, 2015)

Nel mese di maggio, al Salone internazionale del libro di Torino, ho avuto occasione di ascoltare Donatella Di Cesare che ha parlato del filosofo Martin Heidegger, del quale sono stati pubblicati in Germania lo scorso anno i Quaderni neri, che dovrebbero in autunno uscire anche nella traduzione italiana. Mi ha colpito il fatto che fosse scortata da due guardie del corpo che facevano barriera tra lei e il pubblico. Nel mese di luglio avrebbe dovuto parlare anche presso il castello di Iseo, appuntamento al quale mi sono presentato, ma, con rammarico, ho scoperto che la relatrice aveva dato forfait per motivi di sicurezza. Ricercando in Internet le ragioni di tali misure, sono venuto a sapere che le sue prese di posizione, avvenute fra l’altro tramite vari interventi pubblicati sull’inserto “La lettura” del Corriere della sera domenicale e, soprattutto, attraverso il libro scritto per la Bollati Boringhieri, intitolato Heidegger e gli ebrei. I "Quaderni neri”, è stata presa di mira da esponenti di estrema destra e sottoposta a minacce. Va ricordato, inoltre, che D. Di Cesare, che insegna Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, è stata allieva di H. G. Gadamer, allievo a sua volta di M. Heidegger; si occupa di filosofia ebraica, su cui ha scritto vari volumi; recentemente, esattamente all’inizio di quest’anno, si è dimessa da vicepresidente della “Martin Heidegger-Gesellschaft“, istituzione che si occupa della valorizzazione del pensiero di Heidegger, in seguito alle posizioni di chiusura assunte dal suo comitato direttivo dopo la pubblicazione dei Quaderni Neri e le polemiche che sono scaturite.

D. Di Cesare, come spiega nel suo libro dedicato ai Quaderni neri, rifiuta sia la posizione di chi liquida Heidegger in quanto considera il suo pensiero (sia quello espresso in Essere e tempo sia quello successivo alla cosiddetta “svolta”) intrinsecamente reazionario (come Adorno e, più recentemente, Farìas e Faye), sia quella di chi vorrebbe addomesticarlo, considerando la sua adesione al nazismo e scritti come i “Quaderni Neri” rispettivamente come una parentesi e un’opera marginale, che non inciderebbero sulla sostanza del suo pensiero.

Né accetta l’interpretazione di H. Arendt che lo considera incompetente da un punto di vista politico e, di conseguenza, separa la sua adesione al nazismo dalla sua opera filosofica. Viceversa i Quaderni neri evidenziano come la posizione politica di H., che, pur avendo un suo sviluppo interno (dall’illusione di poter divenire la guida spirituale del nazismo è passato ad un certo distacco dalla linea tecnicistica assunta via via dal nazionalsocialismo; non si tratta, comunque, di un vero e radicale strappo, se ancora nel 1941 elogia il discorso di Hitler del 22 giugno 1941 col quale annuncia l’attacco all’Urss, un documento che “i tempi a venire avrebbero potuto degnamente valutare”), non lo porterà a rinnegare mai fino al termine della guerra la sua adesione al partito nazista e non pronuncerà mai - neanche dopo l’ampia documentazione e le testimonianze dirette delle vittime (si pensi, anche solo, al Diario di Anna Frank o ai libri di Primo Levi, o, ancor di più, al processo ad Eichmann), una condanna dei crimini commessi dal nazismo, nonostante i pressanti inviti del poeta Celan e di filosofi amici prestigiosi (ad esempio, Jaspers e Marcuse).

La Di Cesare mette in rilievo, attraverso varie citazioni, tratte in particolare dai Quaderni Neri inquadrate nel relativo contesto, come il pensiero di Heidegger risulti inestricabilmente collegato alla dimensione politica; è Heidegger stesso che rileva che il punto di partenza della filosofia è l’esperienza effettiva della vita (pag. 8). Con la cosiddetta “svolta”, H. sposta l’attenzione dall’uomo (“esserci”), colto nella sua esistenza storica, alla storia dell’Essere. Nella sua visione risulta che, nell’età della metafisica - che va dall’origine del pensiero greco (dopo Parmenide) fino ai suoi tempi-, non solo ci si è dimenticati dell’Essere, ma lo si è anche abbandonato e l’Essere stesso si è sottratto all’uomo. Questo oblio e ritrarsi dell’Essere ha avuto come fase culminante l’età moderna, coincidente con la nascita della scienza, lo sviluppo della tecnica, l’industrializzazione, che si fondano sul pensiero calcolante e che hanno dato vita ad un processo che viene denominato “macchinazione”. Artefici principali della “macchinazione”, il cui esito finale è una desertificazione dove non cresce più nulla, risultano essere il mondo anglo-americano e il bolscevismo, che sono strettamente legati all’ebraismo (pag. 203). In H. tutta la modernità, compresa la democrazia, viene considerata negativamente.

L’antisemitismo di H. non si basa, come nel caso della concezione ufficiale del nazismo, su un razzismo di matrice biologica, ma ha una connotazione metafisica (pag. 101): gli ebrei occupano un ruolo importante, decisivo nell’affermazione della “macchinazione” e quindi nell’allontanamento dell’uomo dall’Essere (pag. 207 e segg).

H. assegna ai tedeschi la missione di contrastare tale “macchinazione e vede nella seconda guerra mondiale una guerra dell’Essere contro il predominio, attribuito in particolare agli ebrei, dell’ente (umanità) a scapito dell’Essere; l’ebraismo infatti è penetrato ovunque, anche se in modo impercettibile, e non ha bisogno di intraprendere azioni belliche “mentre a noi – scrive H. nel 1941 – non resta che sacrificare il miglior sangue dei migliori del nostro popolo” (pag. 194).

Terminata la guerra, H. intensifica le sue riflessioni sulla tecnica, considerata una minaccia per l’uomo e per la natura. In una conferenza del 1949, tenuta a Brema, intitolata Il dispositivo, considera l’industria alimentare meccanizzata, ossia l’agricoltura moderna, alla stessa stregua della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas (pag. 236). Nell’ambito della storia dell’Essere le differenze che esistono nella realtà non hanno importanza: lo sterminio è un avvenimento come un altro e le grida disperate delle vittime dello sterminio non vengono neppure ascoltate.

In questa ottica, la Shoah si configura come la conseguenza del “dispositivo”, ossia della tecnica (pag. 246), ma, in questo contesto, dove vanno a finire le responsabilità? Come è possibile che un intellettuale del suo calibro, che ha esercitato (e continua ad esercitare) un’influenza rilevante nella filosofia contemporanea, perlomeno in quella denominata “continentale”, sia giunto a simili concezioni? D. Di Cesare, nonostante le analisi e le interpretazioni fortemente critiche, considera Heidegger un grande pensatore. Prossimamente, al festival della filosofia di Modena, terrà una lezione su Essere e tempo. Sono curioso di ascoltarla e capire come mai, nonostante tutto, valga la pena di leggere Heidegger.