domenica 30 agosto 2015

L’ambiguità di Martin Heidegger

Nella parte terminale del post inerente ai Quaderni neri di M. Heidegger, ponevo una domanda: come è possibile che l’autore di Essere e tempo, uno dei filosofi più influenti del pensiero contemporaneo, abbia potuto non solo aderire al nazismo, ma chiudersi in un profondo silenzio, anche una volta terminata la guerra, in merito allo sterminio degli ebrei?
Una possibile risposta credo si possa trovare in un bel saggio di Adriano Fabris, studioso non pregiudizialmente avverso al pensiero di Heidegger, presente nel volume da lui curato Metafisica e antisemitismo. I “Quaderni neri” di Heidegger ta filosofia e politica, Ed. ETS, 2014.
Il tema su cui Fabris si sofferma è quello della “decisione”, che è presente già in un corso universitario tenuto da Heidegger nel 1921–1922. Ciascun individuo si trova di fronte ad un’alternativa: lasciarsi disperdere nelle attività della vita quotidiana o, viceversa, contrapporsi a tale dispersione, mirando a scoprire se stesso e mantenendosi fedele a ciò che si è. Optando per la seconda via e quindi realizzando la propria individualità autentica, si contrasta la tendenza naturale al decadimento. La decisione non ha un risvolto puramente teorico ma anche pratico, non è un mero esercizio intellettuale ma incide sulla vita personale.
Il tema viene ripreso in Essere e tempo, dove la decisione fondamentale è per ciò che è indecidibile, ossia per l’essere-per-la-morte, per il riconoscimento della finitezza dell’esserci (= dell’uomo), di ciò che questi propriamente è. La decisione diventa volontà di essere fedele a se stesso. Riprendendo quanto già sostenuto nel corso del 1921–1922, Heidegger ritiene che vi siano due modalità possibili di esistenza: una inautentica, che consiste nella dispersione della vita quotidiana, nella chiacchiera e una autentica, che richiede una fedeltà a se stessi. La scelta dell’esistenza autentica coincide con l’accoglienza del destino di mortalità che è proprio di un individuo.
Se si pensa bene a quanto ho finora riferito, si ricava l’idea che, per Heidegger, il soggetto è centrato su se stesso, mentre il rapporto con l’altro passa in secondo piano, anzi l’altro si identifica con la massa, che vive una quotidianità priva di valore; l’autenticità ha poi una connotazione eroica ed elitaria. Inoltre la decisione non è connessa a principi, a criteri che diano un senso all’azione, ma scaturisce unicamente dall’io, chiuso in se stesso, volto all’autoaffermazione. Non è quindi espressione di una libertà responsabile, ma di una volontà arbitraria.
Ciò che Heidegger propone per il singolo individuo, ossia la decisione ad essere autenticamente se stesso, negli 1933–1934 - periodo in cui aderisce al nazismo e ricopre la carica di rettore dell’Università dei Friburgo -, lo trasferisce al popolo, in particolare al popolo tedesco, il quale deve essere consapevole della propria essenza e perseguirla con coerenza e costanza. Mentre sul piano individuale vi è una chiamata della coscienza che richiede un atto volontario di adesione da parte del soggetto, sul piano del popolo è Heidegger stesso che si presenta come “guida della guida” del popolo tedesco, ossia di Hitler.
Il popolo tedesco deve evitare di lasciarsi trascinare nella rovina a cui è destinato l’Occidente, decidendosi a contrastare i nemici che sono rappresentati dai sostenitori di una mentalità tecnico-scientifica. Da qui il primato e la missione spirituale del popolo tedesco, chiamato ad essere se stesso e quindi ad essere–per-la–morte.
Mentre la scelta individuale è legata al singolo soggetto, esponendosi al rischio dell’arbitrarietà, la scelta del popolo finisce col coincidere con la volontà di un “capo-popolo”. Se si pensa a quanto è avvenuto negli anni successivi con lo scatenamento della guerra mondiale e con la Shoah ad opera del nazismo, il pensiero di Heidegger si carica di tinte fosche, tragiche.
Adriano Fabris, sul finire del saggio, accenna alla presenza in Heidegger di strade alternative, sia pure formulate in modo ambiguo, dove il rapporto con l’altro assume una considerazione centrale e dove al popolo si sostituisce la comunità.
Resta comunque centrale, nell’interpretazione di Fabris, la constatazione di un’ambiguità di fondo di Heidegger, oltre che sul piano personale (si pensi al suo atteggiamento poco riconoscente verso il maestro Husserl e alle crude testimonianze riportate da un suo caro amico, K. Löwith, in un bel libro autobiografico, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933), anche su quello teorico che discende da un’inadeguata elaborazione etica del suo pensiero; il che, per un filosofo che considera centrale il nesso tra pensiero e azione, tra filosofia ed etica/politica, non è di secondaria importanza e proietta un cono d’ombra oscura su tutta la sua opera.


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